Non sono tenuto a condividere le sentenze della Corte Costituzionale, sono tenuto a rispettarle.
Non avrei voluto cedimenti sulla lotta alla mafia: l’ergastolo ostativo e il 41bis alla mafia non sono accanimento vendicativo, non sono solletico a giustizialismi popolari, sono le uniche misure che consentono allo Stato di difendersi da un nemico mortale, che non fa prigionieri, che si insinua fin dentro le istituzioni e travia gli organi più vitali. Sono le uniche misure che applicano la costituzione, perché se la pena deve mirare alla riabilitazione, quale permesso premio si può dare a chi invece graniticamente custodisce come unica finalità la fedeltà al sodalizio criminale?
Quale premio si può dare a chi esibisce la “buona condotta” come atto di dignità e onore in un codice etico perverso? A chi utilizza proprio la “buona condotta” come strumento per tornare al più presto a delinquere?
Nessuno. E con ciò non vedo alcuna esiziale condanna a non-vita, giacchè ad ogni mafioso è sempre lasciata aperta la porta a redimersi e uscire per sua scelta dall’ergastolo ostativo e dal relativo isolamento.
Non posso condividere dunque alcun cedimento.
Ora tuttavia dovremo analizzare attentamente la sentenza della Consulta non appena verrà depositata.
Il comunicato ufficiale, lascia aperta una possibilità di conciliare il rispetto della sentenza con il rispetto delle vittime dirette della mafia, dei cittadini che ne sono tutti vittime indirette e, per quanto mi riguarda, anche della mia coscienza e intelligenza.
A ben vedere, sulla base del comunicato, la sentenza contesta unicamente il diniego automatico dei permessi premio e impone una valutazione specifica, caso per caso. Apre dunque teoricamente ad una discrezionalità e ad un rischio di difformità di applicazione tra diversi Istituti di Pena, Magistrati di Sorveglianza, Procure Antimafia, Comitati provinciali per la sicurezza e l’ordine pubblico, ecc.
Tuttavia nel comunicato è precisato anche un limite ferreo a questa discrezionalità.
Non dice che i permessi possono essere concessi se non ci sono elementi su possibili collegamenti con la criminalità, ma DEVONO esserci elementi PER ESCLUDERE collegamenti ancora in atto con i sodalizi criminali e persino POTENZIALI cioè che questi possano riformarsi.
La sostanza giuridica per certi versi non cambia, ANZI.
La collaborazione da parte di un condannato gli impedisce di fatto di tornare nell’organizzazione.
È la prova regina di una possibile riabilitazione, ma non è assoluta.
Sfugge ad esempio al principio il caso del falso pentito che “collabora” per depistare: è evidente che non siamo comunque di fronte ad una persona “pentita”.
Se oggi si chiede una valutazione specifica ed una prova certa, in qualche modo si può considerare che la sentenza sia persino più restrittiva. Ovvero che la mera “collaborazione” non basterà più.
Ed in questo caso, solo in questo, potrei condividerla: “Io non ti impedisco per principio, a prescindere, di avere permessi..
Ma devo avere prove certe che non userai il permesso per avere contatti.”
Questa mi sembra la nostra battaglia ora.
Se passa questa lettura -che a mio avviso è, a ben vedere, l’unica logica- sul piano operativo ne consegue che il parere degli organi interpellati dovrà essere fondato su prove favorevoli e certe, non su assenza di prove contrarie. E dovrà essere unanime, perché basta un unico dubbio per escludere la condizione di provata e stabile separazione dalle mafie.
Ancora, sullo sfondo, permangono alcuni scrupoli:
– sarà davvero questa poi l’applicazione?
⁃ sarà uniforme sul territorio nazionale?
– sarà sostenibile per gli organi preposti una tale applicazione?
A noi, alla stampa libera, ai cittadini informati e attivi, agli organi giudiziari, tocca una ulteriore responsabilità di garantire la trasparenza e pubblicità delle decisioni, oltre che la coerenza con la legge e la tutela del patto sociale.
La strada era e resta in salita.